roy bish
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Per evitare di farci travolgere dall'emotività e di dare avvio a quei processi di demonizzazione paventati da Franky52, partirei da semplici considerazioni sul tema dell'identità. Il rugby a XV, l'Union rugby, quello più praticato e conosciuto nel mondo, ha costruito la propria coscienza di sé e garantito un terreno comune di condivisione optando per il dilettantismo e mantendolo in essere per un secolo, anno più anno meno. E già qui si dovrebbe fare una proficua digressione per sottolineare quanto abbiano pesato su questa opzione la visione del mondo e gli obiettivi delle elites inglesi, di fatto detentrici per molto tempo del potere decisionale anche a livello internazionale. Sarebbe interessante un richiamo ed un approfondimento della storia del rugby a XIII, il League, professionistico fin "dall'infanzia", che nacque e sviluppò in precise aree geografiche sulla spinta delle esigenze dei praticanti e degli appassionati, in massima parte operai e minatori, che procurarono una frattura fortemente connotata in termini di antagonismo sociale e rivendicazione di autonomia economica. Se ci sarà tempo si potrà tornare sull'argomento. Torniamo al "nostro" rugby dilettantistico. Questo si sviluppa nel corso dei decenni nutrendosi di singolari contraddizioni. Sport decoubertiniano per antonomasia e ad oltranza, viene presto rigettato dai giochi olimpici. Fenomeno di massa capace di mobilitare per le grandi partite internazionali folle avvicinabili o superiori al calcio, con conseguente interesse mediatico e circolazione di consistenti flussi di denaro, gratifica gli attori principali, i giocatori, di soddisfazioni solo in minima parte economiche. E questo è uno degli snodi attraverso i quali a mio giudizio si dovrebbe passare per comprendere le realtà del rugby professionistico contemporaneo. In alcuni paesi, quelli anglosassoni (con le dovute differenze tra uno e l'altro), le tre potenze dell'emisfero meridionale, la Francia, il paradosso è stato lungo il mantenere lo status dilettantistico per gli atleti ed avere dei movimenti che erano, per numero di praticanti e di spettatori, attenzione dei media, presenza potenziale o effettiva degli sponsor, cultura imprenditoriale dei dirigenti (e qui ci sarebbero da rimarcare le differenze tra capitalismo nord-europeo e capitalismo italiano...) pronti ad assorbire, a metabolizzare il professionismo. Quando questo fece irruzione sulla scena, grazie alla spinta di Murdoch e ad altre forze centrifughe, istituzionalizzandosi nel 1995 dopo essere stato incubato per almeno due lustri, le nazioni sopraindicate non ebbero quindi problemi di sorta ad assorbire e a gestire il cambiamento. Siamo stati noi, noi italiani, ad accusare il colpo, perché il nostro movimento, per numero di praticanti, di spettatori ecc. ecc. (si veda sopra) era (ed è) congruente al dilettantismo. Il rugby italiano sviluppa il paradosso negli anni successivi al 1995, perché, grazie ai successi della nazionale di Coste, si trova catapultato in una dimensione che non è gestibile. Senza che il movimento sia cresciuto sensibilmente (nel 2003 il numero dei tesserati è di poche migliaia superiore a quello del 1979), con stadi sempre più vuoti per le partite dei club ed aree geografiche storicamente fondamentali per la pallaovale italiana che mostrano segni di stanchezza e cedimento, ci aggrappiamo alla nazionale per illuderci che il passaggio alla dimensione professionale sia stato indolore e proficuo. Di che professionismo possiamo parlare se la media spettatori paganti nel massimo campionato è inferiore alle mille unità a partita? Di che professionismo possiamo parlare se squadre del massimo campionato non riescono a garantire lo stipendio ai propri giocatori? A che professionismo ci riferiamo se dobbiamo, in molti casi, accettare l'assenza di autonomia, l'incapacità di produrre utili da reinvestire e quindi siamo costretti ad attendere l'arrivo salvifico del mecenate? Ecco, in Italia il punto è proprio questo: se di professionismo dobbiamo perire, o vivere, che sia almeno effettivamente e compiutamente tale. A me sembra, cari Franky e Sanscrito, che fino a questo momento il bicchiere sia più vuoto che pieno. Magari dopo potremo parlare dei problemi di crescita del rugby professionale internazionale e della violenza... Di carne al fuoco ne abbiamo tanta...
- ciccibaliccio
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Caro GRUN , per prima cosa voglio ringraziarti insieme a VEROSQUALO per le bellissime storie di rugby che ci raccontate con competenza e passione. Poi vorrei informarti (non sono certo al 100% , ma te ne darò conferma) che il comune di Roma ha intitolato al grandissimo PAOLO ROSI il nuovissimo impiando di atletica leggera inaugurato alcuni mesi fà dal sindaco Veltroni. Per qualche commemorazione da parte del mondo del rugby aspettiamo fiduciosi.
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Analisi lucidissima, quella di Grun.
Per quanto riguarda il rugby italiano vale la pena di fare alcuni distinguo:
In Italia il rugby non solo non è quasi maggioritario come nei paesi anglosassoni, ma tra gli stessi sport "minori" , intendendo tutti quelli che non sono il calcio, soffre di agguerrita ed qualificata concorrenza.
Nei paesi anglosassoni non hanno certo una pallacanestro e pallavolo plurimedagliate olimpiche e mondiali come noi.
E non hanno nemmeno compresenze "di nicchia e di tradizione" quali baseball, hockey su ghiaccio e pallamano, per non parlare della prestigiosa e plurimedagliata pallanuoto.
Non è un caso che l'altra nazione a vantare importanti rappresentative in pressochè tutti gli sport di squadra - la Spagna - ha un rugby veramente modesto.
C'è chi ha stilato una classifica assoluta che tiene conto dei piazzamenti nei primi 10 posti in tutti i tornei olimpici di tutti i tempi negli sport di squadra. Ebbene l'Italia è nettamente in testa, non ha "assenze".
Con quale dose di "sufficienza"dovremmo trattare i pallavolisti britannici ?
C'è da dire che il rugby ha poi le sue particolarità (che qualcuno potrebbe considerare menate anacronistiche) che hano originato posizioni di svantaggio e di sudditanza e quindi di ritardo.
Ditemi voi sei un Italia - Galles di pallacanestro o un Italia - rlanda di pallavolo potrebbero essere "uncapped" per gli italiani anche se giocate a mondiali ed olimpiadi, per cui se avessero vinto - per sbaglio - Galles ed Irlanda - non conterebbe, se non per gentile concessione dei "maestri" italiani e dopo decenni di tentativi ?
Per quanto riguarda il rugby italiano vale la pena di fare alcuni distinguo:
In Italia il rugby non solo non è quasi maggioritario come nei paesi anglosassoni, ma tra gli stessi sport "minori" , intendendo tutti quelli che non sono il calcio, soffre di agguerrita ed qualificata concorrenza.
Nei paesi anglosassoni non hanno certo una pallacanestro e pallavolo plurimedagliate olimpiche e mondiali come noi.
E non hanno nemmeno compresenze "di nicchia e di tradizione" quali baseball, hockey su ghiaccio e pallamano, per non parlare della prestigiosa e plurimedagliata pallanuoto.
Non è un caso che l'altra nazione a vantare importanti rappresentative in pressochè tutti gli sport di squadra - la Spagna - ha un rugby veramente modesto.
C'è chi ha stilato una classifica assoluta che tiene conto dei piazzamenti nei primi 10 posti in tutti i tornei olimpici di tutti i tempi negli sport di squadra. Ebbene l'Italia è nettamente in testa, non ha "assenze".
Con quale dose di "sufficienza"dovremmo trattare i pallavolisti britannici ?
C'è da dire che il rugby ha poi le sue particolarità (che qualcuno potrebbe considerare menate anacronistiche) che hano originato posizioni di svantaggio e di sudditanza e quindi di ritardo.
Ditemi voi sei un Italia - Galles di pallacanestro o un Italia - rlanda di pallavolo potrebbero essere "uncapped" per gli italiani anche se giocate a mondiali ed olimpiadi, per cui se avessero vinto - per sbaglio - Galles ed Irlanda - non conterebbe, se non per gentile concessione dei "maestri" italiani e dopo decenni di tentativi ?
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l'ultima apparizione come allenatore di club in italia è stata nel campionato 1994/95 a Casale sul Sile, quando il casale giocava in seria A1 (massima serie di allora). Roy è rimasto sempre molto legato all'italia lo dimostra il fatto che ogni anno viene in ferie qui da noi e più precisamente a Jesolo.
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Il professionismo in Italia: bel tema. E anche in questo caso assai lungo e periglioso da dibattere. Credo che oltre alla Nazionale, il passo sia stato fatto anche a causa della polisportiva Milan, gonfiata a dismisura, sedotta e abbandonata. Col risultato, però, di gonfiare anche gli ingaggi dei giocatori del tempo, dando l'illusione che fosse finalmente possibile, e facile, arricchirsi col rugby anche in Italia. É successo anche nella pallavolo, con ingaggi per gli eroi di quella Nazionale che avvicinavano il miliardo di lire. Dopo quelle stagioni frenetiche ed esagerate c'è stato un brusco stop agli ingaggi. Ma il rugby, intanto, cominciava a crescere, godendo, comunque, di buona considerazione anche da parte dei non addetti ai lavori. C'è un mio collega che mi prende in giro per i risultati degli azzurri, dicendo che siamo dei grandi perdenti di successo, e credo che abbia ragione. Credo anch'io che il professionismo abbia snaturato qualcosa, ma se riesce a farlo in maniera dirompente, forse è perché il substrato su cui attecchisce non è abbastanza forte. Prendi sempre quel Milan: era una squadra fortissima, forse anche divertente da vedere, ma al Giuriati ci andavano in pochi, forse gli stessi di prima. Forse perché a Milano si era assai edulcorata la presenza storica dell'Amatori nel seno della città. Ma a Rovigo, con quel po' po' di movimento, e di passione, e di forza che ha il rugby, io credo che sarebbe possibile prendere il buono del professionismo e unirlo al buono del rugby come lo abbiamo conosciuto. É così, oppure sono un inguaribile ottimista, che vede le cose troppo da lontano, relegato come sono in una provincia lontana dell'impero?
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- Iscritto il: 18 giu 2005, 0:00
Parentesi su Andrea Azzali per quelli che ignoravano che alla sua vena artistica sul campo ne corrispondesse una anche "fuori". Provate a digitare in un motore di ricerca (poniamo, google) Andrea Azzali TAC (il nome del suo gruppo).
Potrete vedere che ha pubblicato CD con un'etichetta tedesca e potrete scoprire che viene definito "...l'ex TAC/Parts Andrea Azzali: una leggenda della musica elettronica nazionale." E' lui.
Potrete vedere che ha pubblicato CD con un'etichetta tedesca e potrete scoprire che viene definito "...l'ex TAC/Parts Andrea Azzali: una leggenda della musica elettronica nazionale." E' lui.
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franky52 ha scritto:Aspettando che Verosqualo ci parli di Marzio, ho una domanda da fargli, chi era il tallonatore di quella fortissima prima linea aquilana DiCarlo (in giovanile giocava Pilone, dopo qualche tempo passò in Secona linea, mi pare) Cucchiella e ... Tallonatore era ... Passacantando?sanzen ha scritto:Avrei anch'io una richiesta per Verosqualo: vorrei, se possibile, un ricordo di un'altro componente di quella mischia,
Cucchiella pilone e personaggio "strano" nel rugby di allora.
Grazie
C
Caro Franky, ...il 52 tradisce la nascita?..., nella giovanile di allora, che nel 1972 divene campione d'Italia, il tallonatore era Maurizio Passacantando, con Fulvio Di Carlo e Giancarlo Cucchiella a piloni. Poi in prima squadra Maurizio trovò concorrenti che non gli consentirono una carriera da titolare...Scusa la telegrafica risposta, ma impegni di lavoro, vagamente pressanti..., mi hanno tenuto qualche giorno lontano dal 3D e lo ritrovo denso di un interesse meritevole di confronti e ragionamenti raffinati che comunque testimoniano come il livello degli appasionati di rugby riesce ad esssere veramente alto... complimenti a tutti
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Si la data nel nick tradisce la nascita, ma le ginocchia la rendono ancora più evidente ...verosqualo ha scritto: Caro Franky, ...il 52 tradisce la nascita?..., nella giovanile di allora, che nel 1972 divene campione d'Italia, il tallonatore era Maurizio Passacantando, con Fulvio Di Carlo e Giancarlo Cucchiella a piloni ...
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e che cavolo sempre a lamentarci degli acciacchi e a glorificare il tempo che fu...allora gli elementi per una precisa classificazione di rinco... ci sono tutti...Però...però...questi vecchietti...che belle sollecitazioni danno! Mi domando come mai ( in realtà lo so benissimo ) la Federazione che dovrebbe avere cura della salute del nostro sport, per una sua crescente affermazione, non si ponga i problemi che in questa discussione stanno venendo fuori. Mi sembra di poter dire che il 3D opponga ad un problema reale delle riflessioni utili, anche convincenti, ma senza la velleità della soluzione facile o di pronto uso. Nel solco di queste ve ne propongo un'altra: avete fatto caso come il mondo della comunicazione e della pubblicità sempre più spesso "usano" il rugby? Ma non vi pare anche che il traino comunicativo sia rappresentato proprio da quei valori di fair play, lealtà, correttezza espressioni di una cultura che il professionismo, anche alimentato dalle attenzioni dei media, sta mettendo in crisi? Allora se così fosse si avrebbe il paradosso di una divaricazione tra l'immagine che richiama i valori, ormai passati, e la realtà professionistica tesa solo al risultato e conseguente profitto...Che fare dunque? La risposta è ignota, almeno a me, ma quanto importante sarebbe, almeno, da parte di chi regge le sorti del rugby porsi il problema...BixBeiderbecke ha scritto:Non parliamo degli acciacchi, che qui passano anche dei giovani...



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Riparto sollecitato dagli stimoli degli amici Sanscrito e Verosqualo (allora è vero che la prima linea genera fini pensatori...). E lo faccio riprendendo il tema dell'identità. Sanscrito teme che i giocatori contemporanei di massimo livello stiano diventando altri da lui. Lo Squalo marsicano evidenzia, in modo a mio avviso pertinente, la divaricazione tra un'immagine afferente a valori etici ormai passati e la ricerca esasperata del risultato e del profitto del rugby professionistico. All'inizio di questo 3D avevo scritto che il tratto identificativo, il carattere storico-culturale peculiare del rugby, era, conseguenza del dilettantismo, la saldatura che si verificava tra base (dei praticanti e degli appassionati) e vertice. L'identificazione era completa, la sovrapposizione evidente ed accettata. Altro elemento caratteristico era il processo evolutivo che avveniva "non per rottura, ma per trasmissione" (G. Piacentino). Il rugby o, se preferite, i rugby, si spostavano in avanti lentamente, senza disconoscere il piano di valori elaborato dalle generazioni precedenti. L'avvento del professionismo ha determinato davvero una frattura. "L'ordine lacerante della modernità ha travolto le appartenenze comunitarie, i valori, le tradizioni e i miti dell'origine". Le parole di Sylvie Coyaud, scritte ad esegesi dei lavori di Alain Touraine, possono essere prese in prestito per definire lo stato complessivo del pianeta rugby dopo il 1992. E' evidente che si è aperta una crisi di ordine culturale e strutturale che non è stata ancora risolta. Un secolo di storia era riuscito ad elaborare un universo di segni, aree semantiche, significati che fungevano da riferimento per gli appassionati. L'uragano professionismo ha reso inadeguati questi elementi; forse ci ostiniamo a voler intrepretare il rugby dei figli utilizzando chiavi decodificatrici incapaci di aprire la serratura di questo nuovo mondo, perchè pensate e prodotte per quello trascorso. Questo anacronismo, questa "ostinazione" spiegano anche il paradosso del quale parlava Verosqualo. Forse il rugby professionale ha bisogno di analisti ed interpreti meno connessi alla storia dei padri, forse noi vecchi romantici non possediamo ancora, e non possiederemo mai, gli strumenti culturali e gli schemi emotivi e mentali per decifrare i segni prodotti dal nuovo sistema. Forse... Ma se la miopia interpretativa avesse affetto i nuovi profeti, gli entusiasti a tutti i costi dell'era professionale? Mi sa che dovremo "placcare" ancora questo tema...
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No more...GRUN ha scritto:Riparto sollecitato dagli stimoli degli amici Sanscrito e Verosqualo (allora è vero che la prima linea genera fini pensatori...). E lo faccio riprendendo il tema dell'identità. Sanscrito teme che i giocatori contemporanei di massimo livello stiano diventando altri da lui. Lo Squalo marsicano evidenzia, in modo a mio avviso pertinente, la divaricazione tra un'immagine afferente a valori etici ormai passati e la ricerca esasperata del risultato e del profitto del rugby professionistico. All'inizio di questo 3D avevo scritto che il tratto identificativo, il carattere storico-culturale peculiare del rugby, era, conseguenza del dilettantismo, la saldatura che si verificava tra base (dei praticanti e degli appassionati) e vertice. L'identificazione era completa, la sovrapposizione evidente ed accettata. Altro elemento caratteristico era il processo evolutivo che avveniva "non per rottura, ma per trasmissione" (G. Piacentino). Il rugby o, se preferite, i rugby, si spostavano in avanti lentamente, senza disconoscere il piano di valori elaborato dalle generazioni precedenti. L'avvento del professionismo ha determinato davvero una frattura. "L'ordine lacerante della modernità ha travolto le appartenenze comunitarie, i valori, le tradizioni e i miti dell'origine". Le parole di Sylvie Coyaud, scritte ad esegesi dei lavori di Alain Touraine, possono essere prese in prestito per definire lo stato complessivo del pianeta rugby dopo il 1992. E' evidente che si è aperta una crisi di ordine culturale e strutturale che non è stata ancora risolta. Un secolo di storia era riuscito ad elaborare un universo di segni, aree semantiche, significati che fungevano da riferimento per gli appassionati. L'uragano professionismo ha reso inadeguati questi elementi; forse ci ostiniamo a voler intrepretare il rugby dei figli utilizzando chiavi decodificatrici incapaci di aprire la serratura di questo nuovo mondo, perchè pensate e prodotte per quello trascorso. Questo anacronismo, questa "ostinazione" spiegano anche il paradosso del quale parlava Verosqualo. Forse il rugby professionale ha bisogno di analisti ed interpreti meno connessi alla storia dei padri, forse noi vecchi romantici non possediamo ancora, e non possiederemo mai, gli strumenti culturali e gli schemi emotivi e mentali per decifrare i segni prodotti dal nuovo sistema. Forse... Ma se la miopia interpretativa avesse affetto i nuovi profeti, gli entusiasti a tutti i costi dell'era professionale? Mi sa che dovremo "placcare" ancora questo tema...


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Tralascerei, per il momento, il tema tecnico/fisiologico della diversità biomeccanica. Ma posso tranquillamente affermare che (paradosso) un Martone non scenderà mai più in campo e che la longevità sportiva sarà sempre più rara.GRUN ha scritto:Un secolo di storia era riuscito ad elaborare un universo di segni, aree semantiche, significati che fungevano da riferimento per gli appassionati. L'uragano professionismo ha reso inadeguati questi elementi; forse ci ostiniamo a voler intrepretare il rugby dei figli utilizzando chiavi decodificatrici incapaci di aprire la serratura di questo nuovo mondo, perchè pensate e prodotte per quello trascorso. Questo anacronismo, questa "ostinazione" spiegano anche il paradosso del quale parlava Verosqualo. Forse il rugby professionale ha bisogno di analisti ed interpreti meno connessi alla storia dei padri, forse noi vecchi romantici non possediamo ancora, e non possiederemo mai, gli strumenti culturali e gli schemi emotivi e mentali per decifrare i segni prodotti dal nuovo sistema. Forse... Ma se la miopia interpretativa avesse affetto i nuovi profeti, gli entusiasti a tutti i costi dell'era professionale?
Ma vorrei arrivare al tema ostico del dualismo, irrisolto, fra il Rugby (etico) dilettantistico e il rugby professionistico del business mediatico.
Del resto, introdotto recentemente anche in politica, il metodo più destrutturalizzante è quello di tacciare di conservatorismo, coloro che erano dichiarati fino a pochi anni fa rivoluzionari.
Ogni analisi comparativa fra modernità e "Ancienne Régime" non può che partire dal confrontare dati il più possibile storicizzati con dati di cui non si hanno riscontri sedimentati. Un lavoro in rete, che devo ancora digerire, ma che può darci spunti di riflessione e discussione è:
http://www.aafla.org/SportsLibrary/Spor ... SMR12c.pdf
Lamentele ... acciacchi ... nostalghia ...verosqualo ha scritto:e che cavolo sempre a lamentarci degli acciacchi e a glorificare il tempo che fu...allora gli elementi per una precisa classificazione di rinco... ci sono tutti...Però...però...questi vecchietti...che belle sollecitazioni danno!
"Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino
quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino.
Li troverai là col tempo che fa estate e inverno,
a stratracannare a staramaledir le donne il tempo ed il governo"
La città vecchia
F. De André 1968
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Sono convinto che il professionismo si sia innestato in maniera molto differente sulle culture dilettantistiche esistenti nei vari "universi rugby" che si trovavano nel mondo a metà anni 90.
Dobbiamo tenere conto in maniera assoluta di come le società rugbystiche, intese come agglomerati di giocatori, dirigenti, suqadre e organizzazione dei tornei+tradizione, erano strutturate nelle zone rugbystiche. Pensiamo alle Union Britanniche e Irlandesi, l'origine dei giocatori Inglesi era quasi sempre di classe agiate, studenti di college o professionisti, i Gallesi erano lavoratori e così diversificando. La base nelle zone evolute assicurava un ricambio generazionale continuo ed una chiusura autarchica verso gli "immigrati".
Le culture rugbustiche meno ricche di tradizione e base come la nostra erano costrette per fare dei piccoli passi di miglioramento tecnico a pagare degli eccellenti giocatori stranieri che quasi sempre davano impulso alla squadra e all'ambiente. Eravamo dei vituperati antesignani del professionismo finchè lo stesso problema, moltiplicato per il numero dei giocatori di primo piano di ogni Union/Federazione, non si è presentato sotto forma di professionismo mascherato o malcelato.
Era certamente difficile mettere d'accordo sviluppo del gioco e impegno temporale con una tradizione fatta da amatori, magari sublimi ma pur sempre interpreti del gioco come tale e non come professione.
Il passaggio è stato molto difficile e periglioso per tutti e comunque il professionismo ha assunto aspetti diversi secondo l'origine+tradizione delle isole rugbystiche di cui parlavo all'inizio del mio intervento.
Piccolo esempio per chi ha avuto modo di seguire la Premiership Inglese il comportamento molto più severo degli arbitri in questo campionato 2005/06 rispetto al precedente che ha portato un miglioramento nei rapporti fra i giocatori in campo, molta strada in proposito è ancora da percorrere e il cammino sarà lungo e tortuoso.
C'è una dicotomia temporale tra la visione del mondo fuori dal rugby e la difficilissima situazione di assestamento del rugby professionistico. L'immagine usata dalla comunicazione pubblicitaria è quella antica che corrisponde ai valori tradizionali, il rugby praticato oggi è diverso nel suo essere giocato anche per il profitto, ma non solo. Certamente la comunicazione ha a disposizione una serie di valori da mettere in risalto sempre meno reperibili allo stato "puro", ma è proprio per questa "visibilità" non tradizionale e venduta come prodotto che il rugby ha più potere mediatico.
La difficoltà sta nel coniugare i valori con la merce, parola vagamente volgare nel contesto, ma definisce il grande quid del rugby contemporaneo. Sono convinto che molti dei partecipanti a questa discussione siano consapevoli che passa anche e soprattutto dalla loro esperienza e conoscenza la possibilità di far mettere sane radici a tuti quei giovanotti che praticano questo sport. Attraverso l'educazione e la continuazione del valore che, oltre che un gioco, il rugby è un mestiere onesto.
Dobbiamo tenere conto in maniera assoluta di come le società rugbystiche, intese come agglomerati di giocatori, dirigenti, suqadre e organizzazione dei tornei+tradizione, erano strutturate nelle zone rugbystiche. Pensiamo alle Union Britanniche e Irlandesi, l'origine dei giocatori Inglesi era quasi sempre di classe agiate, studenti di college o professionisti, i Gallesi erano lavoratori e così diversificando. La base nelle zone evolute assicurava un ricambio generazionale continuo ed una chiusura autarchica verso gli "immigrati".
Le culture rugbustiche meno ricche di tradizione e base come la nostra erano costrette per fare dei piccoli passi di miglioramento tecnico a pagare degli eccellenti giocatori stranieri che quasi sempre davano impulso alla squadra e all'ambiente. Eravamo dei vituperati antesignani del professionismo finchè lo stesso problema, moltiplicato per il numero dei giocatori di primo piano di ogni Union/Federazione, non si è presentato sotto forma di professionismo mascherato o malcelato.
Era certamente difficile mettere d'accordo sviluppo del gioco e impegno temporale con una tradizione fatta da amatori, magari sublimi ma pur sempre interpreti del gioco come tale e non come professione.
Il passaggio è stato molto difficile e periglioso per tutti e comunque il professionismo ha assunto aspetti diversi secondo l'origine+tradizione delle isole rugbystiche di cui parlavo all'inizio del mio intervento.
Piccolo esempio per chi ha avuto modo di seguire la Premiership Inglese il comportamento molto più severo degli arbitri in questo campionato 2005/06 rispetto al precedente che ha portato un miglioramento nei rapporti fra i giocatori in campo, molta strada in proposito è ancora da percorrere e il cammino sarà lungo e tortuoso.
C'è una dicotomia temporale tra la visione del mondo fuori dal rugby e la difficilissima situazione di assestamento del rugby professionistico. L'immagine usata dalla comunicazione pubblicitaria è quella antica che corrisponde ai valori tradizionali, il rugby praticato oggi è diverso nel suo essere giocato anche per il profitto, ma non solo. Certamente la comunicazione ha a disposizione una serie di valori da mettere in risalto sempre meno reperibili allo stato "puro", ma è proprio per questa "visibilità" non tradizionale e venduta come prodotto che il rugby ha più potere mediatico.
La difficoltà sta nel coniugare i valori con la merce, parola vagamente volgare nel contesto, ma definisce il grande quid del rugby contemporaneo. Sono convinto che molti dei partecipanti a questa discussione siano consapevoli che passa anche e soprattutto dalla loro esperienza e conoscenza la possibilità di far mettere sane radici a tuti quei giovanotti che praticano questo sport. Attraverso l'educazione e la continuazione del valore che, oltre che un gioco, il rugby è un mestiere onesto.