Giovanbattista Venditti si candida?
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“Sono il Sedicesimo Uomo.
Strano vero? Mi avete sempre visto in campo, di maglie ne ho indossate tante ma la sedici uno fatica a immaginarmela addosso.
Anche io sono il Sedicesimo Uomo e lo sono per motivi viscerali.
Sono un atleta e ho avuto la sorte di giocare quasi tutta la mia carriera sotto i riflettori degli stadi più importanti del rugby.
Le mete che ho segnato, i metri che ho corso li conoscete tanto quanto me, forse meglio di me che li ho vissuti in quella bolla di euforia, incoscienza e trance agonistica che trasforma la lunga parabola di un atleta in un sogno.
Poi il sogno finisce, a volte il risveglio è brusco e terribile e quel che resta non sono solo i momenti condivisi, quello che rimane viene da lontano.
Il mio sogno è finito pochi giorni fa, la mia storia no.
Perché ogni metro sotto quei riflettori corrisponde a un passo del bambino che sono stato, sono quelli i momenti che voglio raccontarvi, quelli che sopravvivono a tutto.
Sono nato in Abruzzo. La mia è una famiglia semplice, solida, unita. Ho imparato fin da subito che si vive in altalena tra gioie, serenità e difficoltà enormi e ho accolto tutto con la stessa forza d’animo, con lo stesso spirito. Sono nato in Abruzzo appunto e le mani forti di mio padre e il sorriso di mia madre sono scavati in quelle rocce, loro sono stati le mie montagne di amore e certezze.
A 9 anni ho scoperto che quella palla ovale così strana poteva essere parte della mia vita, lei e i suoi rimbalzi sbilenchi. Fin dal primo allenamento ho capito che l’amore era ricambiato.
Io e la palla non ci siamo lasciati mai più.
Non ho mai perso di vista il percorso, non mi sono mai montato la testa, nemmeno quando i complimenti erano più pesanti del fango sulla maglia e degli scarpini zuppi d’acqua.
Mio padre è stato un pugile, l’idea di poter finire al tappeto anche nel momento migliore è una regola che ho imparato bene. Passo dopo passo si cresce, anche quando i passi sono veloci tocca metterli in fila, se no si inciampa.
A 15 anni ho salutato famiglia e amici per darmi qualche possibilità.
Non te lo dicono mai quando raccontano la storia degli sportivi di successo, non ti spiegano mai quanto grande sia il sacrificio. Non la corsa, nemmeno la fatica, a volte è proprio il cuore a diventare di piombo.
Da un giorno all’altro sei solo, lontano da casa e ti aggrappi solo alla tua forza di spirito, all’idea di non mollare.
Mi sono trasferito a Parma, per amore e un po’ per giocare nell’allora TOP10. Quando a 18 anni mi sono affacciato al rugby dei grandi ho capito subito che ne era valsa la pena: due mete nella prima partita di campionato (Gran Parma contro Petrarca Padova). C’è davvero un momento in cui pensi di avercela fatta? Forse sì, anche se io l’ho interpretato in un altro modo, non ero arrivato, stavo continuando a correre.
L’anno dopo è iniziata l’avventura con gli Aironi, la Celtic League e un palcoscenico ancora più grande. Condividere lo spogliatoio con giocatori che fino ad allora avevo visto solo in TV ed essere il più giovane della squadra mi piaceva molto: avevo tanto da imparare, guardavo e rubavo qualsiasi cosa potesse essermi utile. Ogni giocatore è diverso dall’altro, ogni gesto che sembra identico se lo analizzi con attenzione è eseguito con sfumature a volte impercettibili ma determinanti. La stagione successiva arrivò anche l’esordio con la maglia della Nazionale maggiore: avevo 21 anni e tanta voglia di lasciare da subito il segno ma allo stesso tempo mi rendevo conto stare in campo era già un patrimonio, la creazione di ricordi da raccontare ai miei figli.
Torneo delle Sei Nazioni: giocai la prima partita a Parigi davanti a decine di migliaia di persone e pensavo fosse già abbastanza, di avere iniziato col botto quel capitolo della mia vita. Sbagliavo, il bello doveva ancora arrivare. Solo 7 giorni dopo segnai la mia prima meta contro l’Inghilterra in una partita persa di poco a Roma.
Gioia, emozione e amarezza tutte concentrate in 80 minuti, chi non conosce il nostro sport non può sapere cosa si perde.
Ma non è tutto, non basta.
Ho girato il mondo ed è stato un privilegio, ma per meritarlo bisogna imparare a restituire.
Ho completato i miei studi universitari e soprattutto ho visto crescere la mia famiglia. Nel tempo gli equilibri sono cambiati e il rugby è diventato sempre più una bolla di astrazione assoluta. Un posto fuori dal mondo, senza gravità, un’isola a cavallo tra spazio e tempo.
Con gli scarpini addosso la vita è tutta un’altra cosa, è più semplice.
Un passo dopo l’altro, veloci o lenti, dritti o laterali, la palla al petto.
Poi all’improvviso si invecchia. Strano che lo dica un trentenne, ma la vita di uno sportivo d’élite a volte scappa via senza avvisare. Finisce in un soffio ma quell’attimo è la somma di tanti fattori.
Un giocatore maturo è soprattutto un uomo più attento alle dinamiche fuori dal campo. La purezza, l’astrazione assoluta lascia spazio a una consapevolezza diversa, a volte dolorosa. Troppe mancanze, troppi tratti torbidi, lo sport che diventa un’altra cosa. Gli 80 minuti del sabato sono solo una conseguenza del lavoro fatto prima e le condizioni in cui i giocatori si allenano sono fondamentali. L’ambiente è troppo importante per la costruzione di giocatori motivati e mentalmente solidi. Ho vissuto 20 anni dentro un rettangolo verde e ho capito che l’energia delle persone, l’attitudine fa la differenza. In campo era facile percepire questa energia, nella tua o nella squadra avversaria. Fuori è lentamente scomparsa, sostituita da altro, da una forma generica di opportunismo e spirito di sopravvivenza.
Chi avrebbe dovuto creare le condizioni di crescita migliori per noi giocatori ha pensato ad altro. Anche noi abbiamo delle colpe, abbiamo accettato tante cose che non avremmo dovuto accettare, siamo stati complici e incapaci di indirizzare un cambiamento fondamentale.
Decidere di smettere a 29 anni è stata una forzatura, farlo in mezzo alla stagione ancora di più ma la verità è che non potevo più aspettare, non si può più aspettare.
Bisogna cambiare ora, prima che sia troppo tardi.
Temi come la formazione dei giocatori e la costruzione di atleti e persone migliori hanno bisogno di un nuovo disegno, i tempi cambiano velocemente e le innovazioni nello sport vanno ancora più spedite. I ragazzi vanno accompagnati in un percorso più completo e complesso, non misurati al chilo e con la riga; dentro una maglia c’è molto di più e il compito universale dello sport è quello di creare uomini migliori.
Per anni il rugby mi ha dato tantissimo, ora è tempo di restituire.
Non porto rancore, non ho piccole né grandi vendette da compiere, non sono gli ultimi mesi di fatica e frustrazione a guidare la mia volontà.
Voglio solo riportare al rugby quello che il rugby mi ha insegnato: impegno, sacrificio, collaborazione e gioco di squadra.
Solo condividendo si arriva.
Lo pensava quel bimbo abruzzese di 9 anni, lo pensa uno che ricorda ogni passo che lo ha portato fin qua.
Giovanbattista Venditti”